ATTENZIONE! La seguente recensione contiene spoiler sulla trama e sul finale del lungometraggio. Proseguite solo se siete coscienti di ciò che vi aspetta.
Lo scorso 25 agosto è arrivato su Netflix il live action made in USA di Death Note, il celebre manga scritto da Tsugumi Ohba e disegnato da Takeshi Obata. L’opera originale, fenomeno degli anni Duemila, racconta la storia di Light Yagami, cittadino e studente modello, il quale un giorno trova un misterioso quaderno detto “della morte”.
Diretto da Adam Wingard (“Blair Witch”, “You’re Next”) il film è da considerarsi, più che una trasposizione, una versione “What if”. Ambientato negli Stati Uniti, il “Death Note” di Netflix presenta un cast quasi del tutto occidentale, il che ha alimentato da subito le controversie e le accuse di whitewashing.
Light Yagami diventa Light Turner (interpretato da Nat Wolff), ragazzo emarginato e bersaglio dei bulli locali – e te credo direi io, quell’accoppiamento di nome e cognome in un liceo americano è una sentenza di morte come qui lo sarebbe un Erminio Ottone – il quale tiene un adesivo di American Horror Story nell’armadietto e prova risentimento verso il padre poliziotto dopo l’omicidio di sua madre. Tendenzialmente ingenuo, Turner ha da subito delle riserve nei confronti del quaderno. Non è un freddo calcolatore come Yagami; al contrario, il personaggio subisce una trasformazione da burattinaio a burattino: viene manipolato facilmente da Ryuk e Mi(s)a – che risultano quasi i “veri cattivi” – e non è troppo furbo nel celare il suo terribile segreto, a giudicare dalla facilità con cui se lo lascia sfuggire per impressionare una ragazza che conosce appena. Inoltre la performance dell’attore, visibilmente più adatto a ruoli comici e sopra le righe, lascia a desiderare.
Misa Amane, la bella e tonta fidanzata di Yagami, diventa Mia Sutton ed è interpretata da Margaret Qualley. Anche il suo personaggio è rovesciato: nel live action ci troviamo davanti a una cheerleader annoiata, che in seguito al legame con Light si rivela una fredda manipolatrice con manie di onnipotenza – il vero Kira, potremmo dire. Nonostante tutto riesce ad essere quasi meno irritante dell’originale.
Lo shinigami Ryuk è interpretato da Willem Dafoe. Non più un grillo parlante ed una spalla comica, Dafoe dà voce e volto ad uno spaventoso dio della morte di cui Light è assolutamente terrorizzato dall’inizio alla fine del film, tanto da lasciargli le mele sul pavimento e scappare via. È lui a convincere Turner ad usare il quaderno, è lui a spiegargli le regole, a spingerlo, a persuaderlo: si annulla così la natura neutrale del personaggio originale. Per sua stessa ammissione, l’attore non ha visto né letto il source material; ma nonostante ciò, Dafoe è Dafoe e la sua interpretazione spacca. Buona la CGI, il design si adatta ai lineamenti di Willem e gli occhi rossi che spiccano nel buio sono un bel tocco.
Passiamo a Elle. Lui, che aveva mosso le masse già all’annuncio del casting. Lui, interpretato da un attore afroamericano (Lakeith Stanfield). Personalmente mi dispiace che sia stato soggetto a così tante critiche tempo addietro, ma ha avuto il suo riscatto perché alla fine si è rivelato il migliore nel trio dei ragazzi protagonisti. Nella prima metà del film in particolare si notano gli sforzi dell’attore nell’imitare i modi di fare del vero Elle: Stanfield ha letto il manga e si vede. Ciononostante, tutti gli sforzi di questo mondo non servono a niente quando devi seguire la sceneggiatura… E questa sceneggiatura ha previsto un gioco dei contrari in cui ogni singolo personaggio sarebbe diventato l’esatto opposto dell’originale: la scomparsa di Watari nel film dà lo scossone definitivo a quello che doveva essere l’apatico e geniale detective, trasformandolo in un ragazzino impulsivo che finisce col farsi sopraffare dalle emozioni ed è così che la caccia a Kira, più che una partita a scacchi, diventa praticamente un inseguimento alla GTA.
Io l’avevo previsto e ho mantenuto basse le aspettative. E dopo aver visto la cascata di guano colare a picco sul film già poche ore dopo l’uscita ho deciso di usare la tecnica “Game of Thrones” (ovvero “ignora il source material e i buchi di trama”) e mi sono imbarcata in questa fantastica avventura. Ho fatto finta di non aver mai letto Death Note e ho azzerato le pretese, così da poter dare un giudizio imparziale e al tempo stesso rispondere ad una domanda che ho incontrato spesso sui social: “Fedeltà al manga a parte, il film com’è?”
Il punto è che la non-fedeltà al manga è l’ultimo dei suoi problemi.
Wingard sembra confuso sulla direzione da dare al suo live action. Estetica neon e musiche anni ’80 (uno dei pochi pro del film, a dire il vero), elementi da teen movie ma al tempo stesso scene splatter alla Final Destination, il tutto condito da buchi di trama a volte imbarazzanti.
Le più grandi incongruenze le troviamo laddove in teoria, essendo esse scritte nero su bianco, dovrebbe risultare impossibile sbagliare: parliamo delle regole del quaderno. Viene aggiunta una nuova regola: solo il possessore del quaderno può vedere lo shinigami. Sarebbe stato interessante veder interagire Ryuk e questa versione di Misa, ma finché si rimane coerenti alla regola fin qui va tutto bene.
Poi però c’è la questione Watari. “Kira ha bisogno di un nome e un volto per uccidere”, nome e cognome reali, non uno pseudonimo. Metà del film gira intorno a questo: Light vuole uccidere Elle, ma ha solo un volto e un nome falso, quindi non può scrivere il suo nome sul quaderno. E dopo aver comunicato questo allo spettatore, misteriosamente Turner prende carta e penna e riesce a eliminare Watari (pseudonimo o comunque nome incompleto), così, come se niente fosse. Cos’ha da dire Wingard al riguardo?
Altra questione scottante è quella che riguarda il comandare le persone tramite il Death Note, che nel film si spinge decisamente oltre. Light riesce infatti, sempre misteriosamente, a comandare addirittura un pezzo di carta (e il vento, quindi) perché volasse giù dalla ruota panoramica fino ad arrivare ad un barile in fiamme e prendere fuoco.
E c’è Mi(s)a che riesce a prendere il quaderno e andarsene tranquilla mentre i poliziotti ispezionano la casa di Light.
Ci sono dialoghi che non hanno alcun senso.
Ci sono scene importanti gestite con una leggerezza imbarazzante.
Ma il vero vincitore è il superpiano finale di Light, roba che i keikaku di Yagami impallidiscono al confronto. Un valzer in cui Mia sarebbe morta, ma solo nel caso in cui avesse preso il quaderno (quando sarebbe dovuta morire comunque), e la caduta dalla ruota panoramica e poi in acqua, e il medico che trova Light e lo cura, e il pedofilo che scrive i nomi al posto suo mentre è in coma e poi gli porta il Death Note in ospedale che al mercato mio padre comprò. Perché non ha semplicemente bruciato la pagina dall’inizio? Non chiedetelo a lui, non è mica un genio. Turner è un ragazzo qualunque, arrivato a quel punto sotto l’influenza di un dio della morte e di una cheerleader annoiata.
Conclude la storia un finale aperto e tragicomico in cui Light confessa tutto al padre, quest’ultimo fa un’espressione indecifrabile ed Elle, davanti a una pagina del Death Note, sembra indeciso se scrivere il nome di Light o meno.
Quel tipo di film che darebbero su Italia 2 alle 11 di sera
Insomma tra luci al neon, inseguimenti all’americana e capovolgimento dei personaggi, il “Death Note” di Wingard è un qualcosa a sé stante, una storia alternativa che tuttavia non brilla. Nel complesso, ignorando la recitazione di Wolff e le varie incongruenze, può essere un film godibile se avete un’ora e mezza libera e vi assicurate di prendere il tutto con ironia… Proprio come fareste con quel tipo di film che passano su Italia 2 in seconda serata. Il potenziale trash diverte: forse il regista si sarà pentito di non aver dato al live action la direzione di una commedia horror.
Consigliarlo? State scherzando?