Attorno agli anni ’80 e ’90 in Giappone vi era uno stigma sociale estremamente pesante verso gli otaku, appassionati di anime e manga la cui reputazione di semplici fan sfegatati venne tramutata in quella di persone malate e perverse. Tale stereotipo è meno presente oggi, ma alcuni giapponesi tendono ancora a stare lontani da chi si appassiona particolarmente a film, manga o videogiochi, soprattutto se hanno contenuti violenti, ritenendo che possano incitare a compiere crimini. Questa concezione non ci è nuova, dal momento che in Italia si tende da anni a demonizzare spesso i videogiochi e i giocatori stessi; tuttavia, in Giappone questo stereotipo non è solo frutto di ignoranza o disinformazione, bensì viene da una paura collettiva che deriva da una serie di gravi crimini compiuti da giovani otaku, ed uno in particolare viene ancora oggi ritenuto come il principale responsabile. L’uomo in questione è Tsutomu Miyazaki, un criminale che commise quattro omicidi particolarmente cruenti, spargendo panico nella tranquilla prefettura di Saitama, dove vi era ben poca attività criminale. Sono diversi i soprannomi affibbiati a Tsutomu Miyazaki, ma quello con cui divenne famoso e tanto conosciuto ancora oggi è “L’assassino Otaku”.
La vita privata
Nato nel 1962 da una famiglia facoltosa, Tsutomu Miyazaki ebbe sin dall’inizio una forte pressione dai propri genitori, proprietari di un’importante società editoriale, i quali imposero un’educazione ferrea per assicurargli un futuro di successo; due furono i primi ostacoli nella vita di Miyazaki, il suo carattere timido e introverso e una deformità alle mani che le rendevano fuse ai polsi, impedendogli alcuni movimenti e venendo ostracizzato a scuola per la sua condizione. Con i genitori occupati dal lavoro e ignorato dalle sorelle, Miyazaki venne affidato spesso a suo nonno, l’unica persona che gli diede il supporto morale che cercava.
Non riuscendo ad essere ammesso alla prestigiosa università Meiji, andò in un’ accademia pubblica dove studiò fotografia. In quel periodo, Miyazaki iniziò ad accumulare una sempre più grande quantità di videocassette contenenti film gore e pornografici, e prese l’abitudine di scattare foto di nascosto alle compagne di classe che inquadrassero le loro parti intime; i film e i giornali porno cominciarono a stancarlo, poiché le parti intime erano censurate. Attorno al 1984, la sua ossessione per il porno lo portò a ricercare pedo-pornografia, ai tempi non totalmente censurata dalle leggi vigenti in Giappone.
Nel maggio del 1988, il nonno di Miyazaki morì, aggravando ulteriormente la sua salute mentale e, pensando di poterlo avere di nuovo con sè, mangiò parti delle sue ceneri. Molti pensano che la morte del nonno rappresenti il punto di non ritorno per Miyazaki, i cui familiari notarono in lui un’insolita crescita di rabbia e aggressività. Pochi mesi dopo, Miyazaki decise di sfogare le sue perversioni su delle giovani vittime.
I crimini
Gli omicidi di Miyazaki si svolsero tutti tra il 1988 e 1989: le sue vittime furono bambine tra i 4 e 7 anni di età. Miyazaki si avvicinava alle bambine fingendosi un fotografo, per poi rapirle e portarle nella sua macchina, dove avveniva l’omicidio. Le sue vittime furono quattro: Mari Konno, Masami Yoshizawa, Erika Namba e Ayako Nomoto. I cittadini della prefettura di Saitama vennero terrorizzati sin dal primo omicidio, sconvolti dalla crudeltà degli atti compiuti su bambine tanto piccole. Dal secondo omicidio, le famiglie delle vittime iniziarono a ricevere delle strane chiamate, dove Miyazaki rimaneva in linea in silenzio. Inviò inoltre delle lettere che descrivevano nel dettaglio cosa aveva fatto alle bambine, assieme a dei pacchetti contenenti capelli o pezzi di unghie delle figlie scomparse.
I crimini di Miyazaki giunsero alla fine il 23 luglio 1989, quando cercò di convincere due sorelline a salire in macchina: riuscì a prendere con sè solo la più piccola, ma mentre le stava scattando le solite foto l’altra aveva chiamato il padre, impedendo così l’omicidio imminente. Miyazaki riuscì momentaneamente a scappare, ma tornò poi indietrò per riprendere la sua auto, finendo arrestato dalla polizia che aveva raggiunto il luogo dopo la chiamata del padre delle due bambine.
La polizia iniziò la perquisizione della stanza di Miyazaki, trovando alcune parti dei cadaveri nel suo armadio; fecero delle foto in ogni angolo della stanza, contando numerose riviste porno e più di 5000 cassette contenenti film gore e pornografici, oltre ad alcuni video che aveva fatto lui stesso alle sue vittime. Dalle foto scattate nella casa di Miyazaki, i media scambiarono quelle videocassette e i giornali per anime e manga, e notandone il numero così spropositato arrivarono alla conclusione che fossero stati suddetti prodotti a incitare Miyazaki, scatenando un panico generale quando decisero di nominarlo “il Killer Otaku”, facendo intendere che tutti gli otaku, a loro volta, potessero avere tendenze omicide o perversioni disgustose.
Condanna e impatto sociale
Il nome di Tsutomu Miyazaki comportò un’enorme peso per tutti i suoi familiari: l’azienda dei genitori fallì, il padre si suicidò nel 1994 dopo aver venduto la propria casa per risarcire le famiglie delle vittime e aver rifiutato di pagare un avvocato per il figlio, mentre la madre se ne andò cancellando le proprie tracce e le sorelle persero il lavoro. Ciò si estese anche a parenti più lontani, con alcune mogli degli zii che divorziarono per non essere più associate alla famiglia e non avere quel cognome.
Quando Miyazaki ammise di aver preso ispirazione da vari film horror per i suoi omicidi (come la serie Guinea Pig), i media iniziarono a dare la colpa a manga, anime e film violenti, dicendo che erano stati questi prodotti a renderlo un assassino. Molti psichiatri sostennero invece che Miyazaki si fosse rifugiato nei mondi di fantasia come forma di escapismo. Alcuni scrittori e opinionisti diedero ai giornalisti la colpa per aver diffuso la paura e l’odio per gli otaku, a causa dell’eccessiva attenzione data alla collezione di manga ed anime trovati nella stanza di Miyazaki che, inoltre, si rivelarono essere in minor numero rispetto ai film e ai giornali espliciti.
Per sette anni, vari psicologi si occuparono del caso di Tsutomu Miyazaki, diagnosticandolo alla fine con un disturbo dissociativo della personalità e schizofrenia; quando gli vennero fatte domande collegate ai suoi omicidi, Miyazaki diede la colpa a un suo alter-ego, un “uomo ratto” che ritrasse in alcuni disegni, sostenendo che fosse lui a dirgli cosa fare. Durante quegli anni, Miyazaki rivelò che sin da piccolo desiderava essere ascoltato dai suoi genitori in merito ai suoi problemi, ma li vedeva preoccupati solo di argomenti legati allo studio e ai suoi voti, affermando che in quel periodo aveva inoltre pensato al suicidio.
Dopo i numerosi studi psichiatrici, Miyazaki venne ritenuto in grado di comprendere la gravità e il peso delle azioni compiute, e venne così condannato a morte il 14 aprile 1997, ma la sentenza venne eseguita solo nel 2008. Miyazaki non ha mai chiesto scusa alle famiglie delle vittime e mai si è mai pentito dei suoi crimini, definendoli anzi un “lavoro ben fatto”. A distanza di anni, con la reputazione degli otaku lentamente risanata, il caso di Tsutomu Miyazaki rimane ancora discusso, sia dall’opinione pubblica che dagli psicologi, i quali oggi considerano evidente come non siano stati manga e anime a scatenare la violenza dell’uomo: i problemi col bullismo subito a scuola, i genitori poco presenti e, in generale, la mancanza di persone con cui confidarsi sono tutti fattori, ai tempi ignorati, che mostrano come i prodotti di finzione siano stati in realtà l’unico rifugio per lui, come lo sono tutt’ora per tanti altri giovani, sia in Giappone che nel resto del mondo, i quali problemi sono spesso presi in considerazione troppo tardi.
Foto di copertina: Pakutaso