Ogni giocatore incallito sa bene che, andando ad esplorare il panorama videoludico sia giapponese che occidentale, è facile imbattersi in diversi franchise “dormienti” o in qualche modo ignorati dalla software house che ne detiene i diritti, nonostante una grande fetta di pubblico ne richieda a gran voce un nuovo capitolo. In questo articolo non voglio addentrarmi nelle ragioni che portano uno sviluppatore ad ascoltare i fan o meno (il volere popolare è ignorato per tante ragioni, e alcune di queste possono anche essere valide) quanto andare ad analizzare una serie di videogiochi bistrattata all’inverosimile dal suo sviluppatore, avvicinandosi pericolosamente al livello di Half Life 3 (che ormai è diventato praticamente un meme, persino per Valve stessa): sto parlando di Trauma Center, proprietà intellettuale di ATLUS, di cui non si sente parlare da ormai, ahimè, quasi dieci anni.
Trauma Center: Under the Knife esce in Giappone nel 2005, su Nintendo DS. In esso interpretiamo un giovane chirurgo alle prime armi, il Dott. Derek Stiles, e lo facciamo proseguire, bisturi alla mano, in un’avventura che ben presto esce dai confini della medicina andando a sfociare in qualcosa di più simile alla fantascienza. La serie però trova la sua vera dimensione su Wii l’anno successivo, dove esce Trauma Center: Second Opinion, un remake del primo gioco con una storia espansa di alcuni capitoli, e che sfrutta appieno le potenzialità dei controlli di movimento dell’innovativa console Nintendo. Curiosamente, i titoli successivi escono sempre prima sul mercato statunitense rispetto a quello nipponico; da qui, ATLUS cavalca la cresta dell’onda. Segue nel 2007 sempre su Wii Trauma Center: New Blood, che aggiunge il doppiaggio completo ad ogni personaggio nelle sezioni di storia giocate come visual novel, e una modalità co-op locale in cui potremo impersonare due chirurghi diversi, Markus Vaughn e Valerie Blaylock, con tanto di filmato d’apertura che sembra preso da una versione anime di Dr. House. Nel 2008 esce, di nuovo soltanto per Nintendo DS, Trauma Center: Under the Knife 2, che purtroppo non è mai stato pubblicato in Europa. Da qui in poi ATLUS si mette a lavorare al magnum opus della serie, che a questo punto sembrava pronta per elevarsi sopra la nomea di “gioco di nicchia”.
La pazienza dei giocatori viene ripagata: ecco spuntare nel 2010 Trauma Team, che spiazza parecchio i fan grazie alla separazione decisa fra questo e i titoli precedenti: non si tratterà più infatti solamente di livelli lineari in cui dovremo operare su dei pazienti, ma avremo a nostra disposizione una storia intricata, in cui le vicende di sei dottori si intrecceranno portando in tavola discipline radicalmente diverse fra loro, come l’ortopedia, la diagnostica, e persino la scienza forense. In Trauma Team è la storia a fare da padrone, e la critica è concorde nel considerarlo il miglior titolo della serie finora, con un punteggio aggregato Metacritic di 82 (il più alto finora per un gioco della saga). I giocatori stessi, leggendo diverse opinioni, sembrano entusiasti. Purtroppo, nonostante la buona pubblicità ottenuta, le vendite sin da subito non sono incoraggianti: è l’inizio della fine e, a parte un rilascio in digitale su Wii U di Trauma Team (che non ne supporta il controller, richiedendo obbligatoriamente un set di Wiimote e Nunchuck), la serie è stata messa “in ghiaccio”, situazione in cui si trova ancora oggi.
Non abbiamo dati globali, ma per quanto riguarda il Giappone il quadro è subito ben chiaro. Nella settimana di debutto Trauma Team vende così poco da arrivare appena diciannovesimo nella classifica dei titoli di maggior successo, e a fine anno, circa sei mesi dopo la sua uscita, le vendite si attestano ad appena intorno alle 17.000 unità. Cos’è andato storto? Purtroppo, non posso dare una risposta. Il mancato rilascio del titolo in Europa probabilmente può aver contribuito a vendite più basse di quanto preventivato, ma in generale Trauma Team è stato un investimento probabilmente troppo oneroso per ATLUS che poi, sentendosi bruciata, ha preferito ritirare la mano e in un certo senso spazzare la polvere sotto al tappeto.
Il titolo di questo articolo non è “stiamo dimenticando” ma “ATLUS ce lo sta facendo dimenticare”; questa mia critica non vuole essere una sorta di attacco nei confronti della software house, perché so bene quanto un investimento sbagliato di questa portata possa essere pericoloso per un’azienda, ma vuole evidenziare il fatto che si sta deliberatamente cercando di cancellare dalla memoria dei giocatori questa serie, un tempo molto apprezzata, quando invece bisognerebbe in un certo senso custodire e celebrare anche i “fallimenti”, specialmente per quanto riguarda giochi che, togliendo dall’equazione le vendite dure e pure, sono stati incredibilmente ben realizzati. Cercando nella lista dei videogiochi sviluppati dalla compagnia, questi non figurano nemmeno più in nessun elenco: l’unica traccia della loro esistenza è data da due siti completamente vuoti e non aggiornati da anni. Le figure chiave che lavorarono alla serie, fra cui Shoji Meguro come compositore e Masayuki Doi come character designer, sono state spostate ad altri progetti come Persona e Shin Megami Tensei.
Non so cosa il futuro riserverà a questa saga, ma trovo davvero strano il silenzio radio totale tenuto dalla compagnia, visto come i costi di sviluppo siano scesi stabilmente negli ultimi anni, specialmente per produzioni di minor profilo: arrivati a questo punto una qualsiasi menzione persino per un titolo mobile dalla portata ridotta, realizzato quasi come indagine di mercato, potrebbe portare i fan in visibilio. Purtroppo, ho paura che il mio ottimismo non sarà ripagato, perché so bene quanto ATLUS sia diventata restia ad esplorare qualsiasi sua proprietà non legata a Persona; dal 2011 infatti questa, Etrian Odissey e Shin Megami Tensei sono le uniche serie che hanno ricevuto un po’ d’amore. L’ora del decesso è passata ormai da un bel pezzo, ma io spero ancora in una resurrezione.