A distanza di sei mesi dalla prima serie approdata sulla piattaforma streaming lo scorso luglio, giunge dal 23 gennaio la seconda parte in sei episodi di SAINT SEIYA: I Cavalieri dello Zodiaco, commissionata da Netflix e prodotta da TOEI Animation. I sacri guerrieri protettori della dea Atena, al servizio della pace dell’umanità, continuano a deludere, riuscendo a peggiorare quel già poco di buono che potevano offrire ai tempi del lancio. Questa seconda porzione cerca nuovamente di ripercorrere gli eventi della serie storica, ricercando un approccio più moderno per ogni idea, buona o cattiva che sia, con un conseguente fallimento.
Come per la prima parte, proprio per il paragone che sorge rigorosamente spontaneo, l’animazione è il tasto più dolente di tutti: la mancanza pressoché vitale dell’approccio all’arte tradizionale di Shingo Araki in collaborazione con Michi Himeno manca come l’aria a un uomo che affoga, dove il solo reputarlo un “letterale tripudio di plasticità inverosimile” sarebbe riduttivo. Saint Seiya targato Netflix è definitivamente uno spot pubblicitario di venti minuti per un merchandise che più che certamente ne verrà tratto.
La tanto meccanica e irrealistica CGI non ha mai un senso di dinamismo, non crea in nessuna sequenza un movimento realistico e credibile e più volte nel corso della serie diventa ridicola: indimenticabile la battaglia tra Seiya e il cavaliere d’argento Misty che, all’apice dello scontro, fa volare il cavaliere di Pegasus come il più inanimato sacco di patate privo di rendering.
Quello che rimane è soltanto una serie che vive di rendita e del nome che porta, creata tanto per riempire il palinsesto animato e che, a conti fatti, offende l’arte nipponica dell’animazione. I momenti di climax, inoltre, vengono completamente distrutti per la più pesante assenza di pathos nell’intera storia delle trasposizioni delle opere di Kurumada, complice anche un doppiaggio forzato presente sia in lingua originale che in italiano: se nella serie storica la scena di Seiya che si fregia delle sacre vestigia dell’armatura d’oro del Sagittario viene ricordata al pari della prima trasformazione di Goku in Super Saiyan in Dragon Ball Z, nella reinterpretazione di Netflix diventa uno dei momenti più bassi di tutti i dodici episodi.
La trama invece, per quanto si siano messi d’impegno nel distruggere ogni possibile ricordo nostalgico della serie originale, cerca di fare qualcosa di diverso: come detto poco sopra, questa serie Netflix rilegge in chiave moderna i Cavalieri dello Zodiaco, con temi come la guerra e i progressi scientifici che ne derivano (come il voler ricreare un cosmo artificiale). Sulla carta dev’essere sembrata un’ottima idea agli sceneggiatori, se non fosse che cozza su ogni livello possibile con la messa in atto di un potere simile. Si potrebbe comprendere se il giogo degli Dei fosse opprimente come visto nelle saghe della serie storica (come quelle di Nettuno, Ade o ancora come nel filler di Asgard) ma nella serie Netflix non sta in piedi: si basa tutto su di una banale profezia la cui veridicità è completamente confutata dalla più semplice realtà dei fatti, tanto da lasciare lo spettatore interdetto.
I personaggi vengono sfruttati nel peggiore dei modi, senza lasciare l’effettivo spazio d’introspezione e/o approfondimento, che invece sarebbe potuto essere molto più che gradito, se non per segmenti imprescindibili della serie: un esempio fra tutti, lo scontro tra Sirio il Dragone e Perseus della Medusa, del quale tutti ricordiamo l’estremo gesto di sacrificio del cavaliere di bronzo del togliersi la vista pur di vincere. Sarebbe stato decisamente più apprezzabile vedere la narrazione puntare più sui personaggi, seguendo certamente le linee guida dell’opera originale, ma creando nuovi momenti salienti che spaziassero dal consueto Seiya che risolve la situazione col quindicesimo Fulmine di Pegasus contro il nemico.
Come se lo spreco di risorse narrative non bastasse, le ambientazioni e i fondali di questa serie sono la definizione da dizionario della parola “scialbo”, primo fra tutti il leggendario scontro tra Aiolia del Leone e Seiya in veste di cavaliere del Sagittario in quella che sembra a tutti gli effetti una fossa comune, spezzando ancora una volta l’atmosfera, oltre a mancare un’occasione per innalzare lo scontro in atto. Questa seconda parte, al pari della precedente, è ricolma di rovinose cadute di stile che vanno a intaccare molto più gravemente il prodotto in sé, a causa della progressione narrativa che cerca di ricalcare (male) l’opera degli anni ’80, inciampando nel volerla svecchiare a tutti i costi.
Ancora una volta la colonna sonora di Yoshihiro Ike (che ricordiamo per Dororo e La ragazza che saltava nel tempo) non riesce minimamente a fronteggiare le melodie indimenticabili di Seiji Yokoyama, rendendo veramente complesso il non chiudere la visione dell’episodio cercando altro in catalogo.
Si tratta di una serie che non ha davvero alcun punto di forza, e nella quale anche gli aspetti positivi non sono esenti da forti difetti: l’unico che sembra ancora sperarci è Masakazu Morita, voce storica di Seiya, che per quanto spessore possa dare attraverso le sue performance, viene penalizzato da una resa visiva pressoché imbarazzante. Al pari dei precedenti sei episodi, non c’è davvero nulla di effettivamente salvabile in questa seconda carrellata: le armature d’oro che si sono potute vedere qualche segmento, sembrano dei veri e propri giocattoli, mentre le texture riciclate per l’usura di quelle di bronzo sono la punta di diamante di una serie alla deriva.
Con trentamila dracme il mio falegname lo fa meglio
Questa serie animata di SAINT SEIYA: I Cavalieri dello Zodiaco da discarica in fiamme è diventata un vero e proprio spreco di qualsivoglia impegno, dove per ogni episodio il punto più alto sono i titoli di coda: l’unico ipotetico aspetto positivo è che sia tanto brutta che chiunque vorrà tornare a vedere qualche segmento della serie storica, rispolverando l’inconfondibile arte di Shingo Araki e Michi Himeno.
Al pari delle puntate del primo slot, sorge continuamente spontaneo chiedersi per quale assurdo motivo abbiano voluto riciclare, nel peggiore dei modi, la storia dei cinque bronzini, anziché investire risorse in un prodotto dignitoso: il culmine di questo melodramma greco-nipponico è che, salvo cancellazioni da parte di Netflix, ci aspetta il ciclo narrativo delle Dodici Case.
Ri-sconsigliato ai limiti estremi