Aggretsuko: l’inquietante ritratto della lavoratrice giapponese

La serie animata che ha stregato Netflix è in realtà una denuncia alla società giapponese. Liberate i vostri istinti Death Metal con Aggretsuko!

Aggretsuko

AggretsukoAggretsuko (アグレッシブ烈子 – Aguresshibu Retsuko) è un prodotto d’animazione giapponese composto da due serie, la prima prodotta dallo studio d’animazione Fanworks e mandata in onda dal 2016 al 2018 sul canale nipponico TBS; la seconda prodotta sempre da Fanworks, ma trasmessa dal 20 aprile 2018 sulla piattaforma streaming Netflix.

Direttamente dal mondo della Sanrio (per i meno avvezzi, l’azienda creatrice di Hello Kitty) la protagonista è Retsuko, un panda rosso che si destreggia tra le mille difficoltà della vita lavorativa giapponese, la quale, per sfogare le angherie subite continuamente da parte del proprio capo e dal rispettivo leccapiedi, si reca ogni sera verso il proprio karaoke di fiducia mettendo alla prova le sue elasticissime corde vocali con del buon vecchio Death Metal. Questa è la struttura relativamente fissa di ogni episodio della durata di quindici minuti l’uno.

La breve durata della serie (solo dieci episodi) permette uno sviluppo della trama repentino, intenzionato a catturare l’interesse dello spettatore già dal secondo episodio, permettendoci fin da subito di capire le caratteristiche di ogni personaggio grazie alle sue fattezze fisiche. Il mondo animale rappresentato, infatti, ricorda l’universo di Bojack Horseman, il quale però si accosta a questo prodotto solo per tale caratteristica. Aggretsuko infatti, non intende proiettarci in una serie densa di feels, colpi di scena e battute sagaci e poco family friendly, ma riesce a trasmettere un messaggio interessante, mantenendo l’innocenza del mondo della Sanrio, riservato solitamente ai bambini.

Le risate sarcastiche di Fenneko (il personaggio a mio avviso più divertente della serie, assieme all’etereo insegnante di Yoga), la dolcezza impacciata di Haida, una timida iena che incarna l’ideale del ragazzo medio giapponese, i pettegolezzi di Kabae, un ippopotamo goffo e imbranato, o l’astuzia di Tsunoda, un cerbiatto che pende dalle labbra del capufficio Ton, un maiale che sfoga sui suoi dipendenti tutta la propria rabbia e misoginia, ci permettono di vivere la giornata tipo di un impiegato giapponese. Anche se la serie non ci coinvolge troppo dal punto di vista emotivo (a meno che non si guardi un episodio tra uno straordinario e l’altro) ci permette comunque di osservare la stressante condizione lavorativa giapponese attraverso la buffa cornice animale, resa ancor più particolare dall’insensata (almeno apparentemente) commistione tra dolcezza e urla assatanate della protagonista, chiusa ogni sera in un karaoke intenta a rilasciare la bile atra accumulata a lavoro.

Proseguire con la descrizione della trama mi farebbe incappare immediatamente in spoiler, dal momento che questa serie non ci offre sensazionali colpi di scena o grasse risate. Retsuko and friends offrono un intrattenimento discreto, non adatto sicuramente al classico pubblico “Netflix & chill” generalmente affamato di accoppiamenti casuali e sconvolgenti decessi mozzafiato (vero, 13 Reasons Why?).

Proprio questa è la motivazione principale per la quale guardare questa serie: limitarsi a un watching passivo vi escluderebbe dal carpire caratteristiche esageratamente frequenti, e per questo motivo allarmanti, che la società giapponese si impegna a celare mantenendo attentamente la propria immagine di nazione che oscilla tra geisha sorridenti e treni superveloci, passando attraverso qualche piattino di sushi o frutti dalle strane forme. Questa serie lancia un segnale forte, sfruttando nel miglior modo possibile l’opportunità concessa dapprima dalla rete TBS e successivamente da Netflix, che l’ha condotta verso un’immediata fama internazionale.

Delimitare Aggretsuko all’interno della cornice della Sanrio è stata la scelta più funzionale che gli sceneggiatori potessero compiere; questo panorama è la rappresentazione perfetta del mondo kawaii, al quale le donne giapponesi sono abituate da secoli. Senza menzionare il mondo dei fumetti, è sufficiente fare un salto al primo konbini (convenience store, per i neofiti) che troveremo appena atterrati all’aeroporto di Narita per vedere una quantità industriale di riviste, giornali e opuscoli aventi in copertina donne ammiccanti in abiti succinti, che rappresentano l’ideale perfetto secondo la società della “donna giapponese”. Trasponendo questo concetto alla Sanrio, cosa c’è di più dolce e remissivo di un panda rosso?

Già dai primi minuti dell’episodio pilota questa condizione cattura immediatamente l’attenzione dello spettatore: la giovane protagonista deve impegnarsi nel vestire i panni che la società ha cucito su misura per lei. Appena veniamo a conoscenza dell’imponente capufficio Ton, intuiamo ciò che questa serie ha intenzione di porci davanti agli occhi, ovvero i maltrattamenti continui subiti da tutti i dipendenti della sezione contabilità di una grossa azienda e, in particolare, da Retsuko, protagonista e donna.

Retsuko, impacciata, timida, servizievole e dalla vocina sommessa (eccetto quando canta) rappresenta il modello alla quale ogni ragazzina dovrebbe aspirare, ma soprattutto ci mostra il tipico pensiero occidentale sul concetto di donna giapponese quasi sempre offuscato da luoghi comuni tanto inconcepibili, quanto gonfiati dalla stessa società nipponica. La condizione lavorativa giapponese, tra straordinari asfissianti, decessi per eccessivo lavoro (tanto che il giapponese ci propone una parola per descrivere questo problema, 過労死 — karoshi) e frequenti suicidi nel caso di licenziamento è ormai nota al pubblico internazionale. Questi elementi, in ogni caso, non sono l’unica parte di questo enorme disagio sociale.

Ciò che le lavoratrici giapponesi vivono ogni giorno è alienante. Un sondaggio svolto nel 2016 dal governo giapponese (consultabile qui) ha rilevato che il 30% delle donne lavoratrici (full e part-time) subiscono regolarmente molestie, sia di tipo verbale (riguardo, ad esempio, l’abbigliamento), che di tipo fisico. Ma il dato più raccapricciante è senza dubbio il trattamento subito dal 19% delle donne durante e dopo la gravidanza (matahara in giapponese, parola macedonia che sta per “maternity harassment”). Nel primo caso queste sono spesso costrette ad abbandonare il lavoro, a causa dei ritmi lavorativi e degli sforzi fisici (generalmente non alleviati dai colleghi) alle quali sono soggette; mentre dopo il parto, nel caso in cui riescono a ottenere un rinnovo del contratto, vivono costantemente molestie e mobbing da parte dei colleghi e dei superiori che premono affinché la neomamma di turno si licenzi, dedicandosi esclusivamente al ruolo di madre e serva del focolare domestico.

Per dare un’idea di quanto sia radicata la questione, segnalo una dichiarazione che si commenta da sola, rilasciata nel 1989 da Yoichi Masuzoe, governatore di Tokyo dal 2014 al 2016 per la rivista maschile “Seiron”:

«Le donne non sono normali quando hanno il ciclo e non si può assolutamente permettere loro la possibilità di prendere decisioni importanti, come ad esempio entrare o meno in una guerra». (正論– Settembre 1989)

Questa serie ci invita a riflettere su quanto spesso queste condizioni coinvolgano frequentemente non solo questo Paese così lontano dalla nostra attenzione, ma anche la nostra nazione.

Aggretsuko ci mostra nel minimo dettaglio ognuno di questi dati, cercando di addolcire la pillola amara con qualche gag simpatica, e un plot narrativo che da un lato cerca di divincolarsi dal suo tema principale, ma dall’altro va ancora più a fondo nella mentalità giapponese, analizzando questo problema sotto ogni sfaccettatura. Conoscendo questi aspetti possiamo guardare con occhi differenti questa serie, capendo pienamente cosa spinge l’innocua Retsuko a recarsi tutte le sere verso il suo tempio fatto di metallo pesante per urlare a squarciagola e liberarsi dello stress che logora giorno dopo giorno la sua vita. Realizziamo inoltre quanto non sia poi così strano l’accostamento tra l’universo femminile kawaii, al quale il Giappone ci ha abituati, e l’urlo sofferente di queste donne che, a lungo andare, accettano la maschera scelta per loro.

Il sondaggio del governo giapponese svela un ultimo, triste dato: solo una donna su dieci reagisce a queste molestie, subendo le conseguenze della propria insolenza.

La dura realtà dietro la maschera del kawaii

La visione di questa serie mi ha colpito al punto tale da spingermi ad approfondire un tema del quale ero quasi totalmente all’oscuro. Per questo motivo la consiglio quindi a tutti coloro che hanno intenzione di andare a fondo su alcuni aspetti generalmente sconosciuti della vita giapponese, gustando un prodotto animato non impegnativo e sicuramente godibile, ma che offre i mezzi per iniziare a scalfire l’immagine che l’Occidente ha del Giappone, quella di un mondo da sogno, privo di difetti e problematiche sociali, reso tale da un involucro che, senza dubbio, funziona a regola d’arte.

Rabbiosamente consigliato!

Giovane dall’età incomprensibile, ama il cinema, il teatro e il rumore del phon. Il Giappone anni ’80, tra neon e funk è il suo Valhalla.

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