“I periodi di crunch non sono un trionfo della forza lavoro, bensì un fallimento della direzione”
Come ti sentiresti se venissi “gentilmente incoraggiato” dal tuo capo a lavorare 60, 80, persino 100 ore alla settimana, quasi vivendo in ufficio, per completare in tre settimane un progetto che normalmente avrebbe richiesto due mesi?
“Nessun obbligo, certo, però sarebbe davvero un’ottima cosa, e poi soprattutto non vorresti certamente lasciare quest’incombenza solo sulle spalle dei tuoi colleghi, vero? Siamo una famiglia, quindi dobbiamo aiutarci l’un l’altro!”
Questo tipo di conversazione è fin troppo comune nelle aziende che si occupano di sviluppo software, e praticamente una garanzia quando si sviluppano videogiochi appartenenti al mercato cosiddetto “AAA”, con progetti su scala mastodontica che impiegano centinaia di lavoratori. I periodi di “crunch”, come sono stati definiti in gergo, rappresentano quel lasso di tempo in cui la direzione prende coscienza del fatto che non si riusciranno a rispettare i tempi del progetto lavorando con orari normali (es. riuscire a sistemare tutti i bug prima della deadline in cui bisogna spedire il gioco ai rivenditori) e quindi, pur di non rimandare l’uscita del gioco, si ricorre al superlavoro di praticamente tutti i settori di sviluppo, con i tester del controllo qualità in prima fila, escludendo quasi solamente chi si occupa delle parti grafiche o promozionali.
Basta fare una veloce ricerca in rete per vedere quanto questo fenomeno sia diffuso per titoli di primo piano come Fortnite, Mortal Kombat X, Red Dead Redemption 2, e simili. Ogni posto di lavoro ha la propria cultura interna ed esistono varie aziende virtuose dove la pratica è stata assolutamente bandita, ma la gran parte delle software house di maggior profilo vi ricorrono in un modo o nell’altro da molto tempo, e purtroppo si è parlato di cambiare le cose solo negli ultimi due anni.
Il crunch fa male alla produttività, alla salute, e crea dei veri e propri casi di esaurimento nervoso o persino peggio in chi passa questi periodi, portandolo in casi estremi persino ad abbandonare l’industria. Tantissimo talento sprecato per non ritardare a tutti i costi l’uscita di un titolo di un paio di mesi.
Questo non esclude l’industria videoludica giapponese, dove però, vista la particolare etica nipponica del lavoro, che si basa sulla cieca fedeltà ad una compagnia, sul cameratismo nei confronti dei colleghi e su uno stacanovismo esagerato, spesso viene tristemente accettato come status quo, ben esemplificato da opere come Aggretsuko o dal disturbante fatto che il termine Karoshi (過労死, “morte per troppo lavoro”) sia di uso comune in ambito medico, e fornito come causa ufficiale del decesso in caso di infarti o ictus sul posto di lavoro. La differenza fra il crunch time giapponese e quello occidentale è data dal fatto che nel primo caso vi partecipano tutti i livelli del management, come successo a Masahiro Sakurai, produttore di Super Smash Bros. Ultimate, che pur di non lasciare il posto di lavoro nonostante avesse dei problemi di stomaco, ha preferito farsi fare delle flebo direttamente dalla scrivania, continuando a lavorare come se niente fosse per rispettare le scadenze, mentre nel secondo caso la direzione non viene affetta da questi periodi di impiego straordinario esagerato.
Ma come si è arrivati a tutto questo? Non è facile trovare una risposta e io stesso non pretendo di averla, ma alcuni lavoratori del settore ritengono che queste pratiche siano diventate di uso comune anche a causa della mancanza di una sorta di sindacato che tuteli sviluppatori di videogiochi, tester QA, e generalmente qualsiasi tipo di impiegato nell’industria software (almeno negli Stati Uniti), dove alcune organizzazioni indipendenti come Game Workers Unite stanno cercando di organizzarsi per tutelare da queste pratiche abusive. Inoltre, la grandissima cultura dell’hype che si è ormai andata a creare favorisce questo clima di continue scadenze, con orde di gamer inferociti pronti a minacciare persino violenza fisica sugli sviluppatori di un titolo in caso di ritardi (come successe con FINAL FANTASY XV).
Non volendo infilarmi in delle scarpe troppo grandi per i miei piedi, lascio le questioni tecniche a chi ne sa più di me, spero convenendo con voi sul fatto che manipolare psicologicamente un individuo per farlo sentire forzato a lavorare anche per sedici ore al giorno per completare lo sviluppo di un videogioco sia qualcosa di cui possiamo fare a meno, che si tratti di un lavoratore di Tokyo, di Montreal, oppure di Berlino; è importante che tutti sappiano che questo accade, è pratica comune, e le cose devono essere cambiate. Parafrasando Shigeru Miyamoto: “Un gioco che viene rimandato prima o poi uscirà bene, un gioco che rispetta le scadenze consumando fino all’osso i propri sviluppatori rimarrà una vergogna per sempre”.