Nei tre anni di fila che ho speso le mie ferie in quel di Tokyo mi sono prefisso una serie di obiettivi da portare a termine, la prima volta in particolar modo. Vedere di persona il Gundam in scala 1/1 a Odaiba, visitare un tempio, scattare una foto accanto al celeberrimo Hachiko, ma soprattutto mangiare. Tanto, spesso e in ogni luogo possibile. E come la bilancia non fatica di certo a testimoniare, sono riuscito perfettamente nel mio intento, assaggiando quasi tutte le pietanze tipiche viste in decenni di animazione e di fumetti giapponesi. Con questa mia disordinata top ten intendo parlarvi delle dieci prelibatezze che ancora oggi porto nel cuore e che non vedo l’ora di assaggiare nuovamente quest’anno: dal finger food alla prelibatezza da ristorante, dal cibo del conbini al leggendario sushi di Hattori Hanzo. Più o meno.
Takoyaki al gusto di roccia lavica
Deliziose polpette di polpo dalla forma perfettamente sferica e dalla medesima temperatura del Sole. Fate attenzione, molta attenzione a ficcarvene una in bocca appena tirate fuori dalla piastra, potreste letteralmente finire come a Pompei, ma dall’interno. Ho gustato la prima volta i takoyaki al Gindaco di Odaiba, sito al piano terra DiverCity Tokyo, il centro commerciale che si erge alle spalle del gigantesco Gundam (al tempo l’RX-78-2, oggi ci trovereste lo Unicorn). Scegliendo la barchetta da 8 pezzi o le scatole che ne contengono un numero maggiore, potremo decidere con quali salse guarnire le polpette (otafuku, formaggio o maionese, se non ricordo male) e condimenti come tonno essiccato e alghe, il tutto da mangiare attraverso le bacchette usa e getta che la catena mette a nostra disposizione. Il prezzo di questa scatola di puro piacere spazia dai 550 Yen (circa 4,5 €) della versione più piccola ai 1.550 (una dozzina di euro) per quella più grande, che contiene ben 24 pezzi (impossibile da finire da soli, ve lo assicuro). In Italia ho avuto modo di assaggiarli in un paio di ristoranti, ma ho notato dimensioni decisamente ridotte (il che non è necessariamente un male) e un gusto tristemente diverso da quello degli originali. Ma meglio che niente…
La tanto ambita Okonomiyaki
Sempre a Odaiba, ma l’anno successivo, ho avuto modo di divorare per cena l’ambitissima Okonomiyaki resa celebre dalla bella Ukyo di Ranma 1/2. Io, Roberto e Francesco ci siamo seduti al tavolo di questo ristorante caratterizzato dalla presenza di tavoli dotati di una piastra incandescente. La cameriera (e cuoca, come state per apprendere) notando la nostra inesperienza è venuta al nostro tavolo e ha versato l’impasto e i primi ingredienti dandogli la caratteristica forma pseudo-rotonda. Dopo aver lasciato a cuocere per un po’ è tornata a girarla, a mettere altri ingredienti e infine ad esortarci a mangiare. Era buona, tanto buona, troppo buona che dopo essere usciti da lì avevamo ancora fame e siamo andati a farci un Omurice al ristorante adiacente dello stesso centro commerciale. Purtroppo non ho avuto altre occasioni per mangiarla a Tokyo l’anno successivo (come vi spiegherò nel prossimo paragrafo) né tantomeno in Italia. Certamente sarà uno dei primi piatti sui quali mi fionderò durante il prossimo viaggio, sperando stavolta di riuscire a cucinarla da solo (macché).
Omurice in dolce compagnia
Praticamente, come il nome stesso suggerisce, un’omelette di riso. Mangiata la prima volta nel 2015 subito dopo l’Okonomiyaki cui sopra, in un ristorante più elegante ma decisamente inquietante. Perché inquietante? Il cameriere, vestito di tutto punto, sussurrava con una voce stridula ogni volta che veniva al nostro tavolo e non parlava una sola parola di inglese (allora non avevo ancora cominciato a studiare la lingua del posto). Non mi piacque particolarmente, anche perché, per errore, ne ordinai una con all’interno i funghi, uno degli ingredienti che più detesto al mondo. La seconda e decisamente più buona l’ho degustata al centro commerciale Sunshine City di Ikebukuro in dolce compagnia. La stessa dolce compagnia (Wakana, ventenne di Tokyo conosciuta in treno in Italia e con la quale sono rimasto in contatto) che mi ha impedito di mangiare nuovamente l’Okonomiyaki a Odaiba assieme a Riccardo e gli altri, una cosa che tuttora mi rinfacciano ma per la quale non sono minimamente pentito. A Ikebukuro l’ho gradita decisamente di più, sia per la dolce compagnia, sia per il buonissimo curry che la accompagnava. Come nel caso dell’Okonomiyaki, non ho trovato ancora nessun ristorante in Italia che possa sfoggiarla sul proprio menù.
Curry Rice e Tonkatsu, what else
La mia passione per il curry made in Japan, tuttavia, deriva dalla ripetuta decisione di mangiare piattu su piatti di Curry Rice e Tonkatsu. Il più memorabile di questi l’ho assaggiato in un ristorante sito all’ingresso della Nakano Broadway, più che un centro commerciale, un vero luogo di culto per tutti i sudatissimi otaku locali e stranieri. Cosa differenzia il curry giapponese da quello che troviamo anche nei nostri ristoranti cinesi? Il gusto, il colore, l’impiattamento e la preparazione. Il curry giapponese è caratterizzato da un invitante colore bruno e si presenta come una cremina non troppo densa; solitamente il piatto è diviso a metà: da una parte trovate la prelibatissima salsa e gli ortaggi e verdure al suo interno, dall’altra del riso bianco. Personalmente, adoro mangiarlo assieme al Tonkatsu, cotolette di maiale impanate e tagliate a fette che si sposano alla perfezione col gustoso curry. Questo piatto viene servito assieme a un paio di posate in stile occidentale, un cucchiaio, per riso e curry, nonché una forchetta per le cotolette. Decisamente una delle cose che più mi mancano del Sol Levante: non sono riuscito a trovare un solo ristorante dalle mie parti capace di cucinare un curry come questo. E nemmeno il Tonkatsu italiano mi ha convinto fino in fondo.
Quel costante desiderio di Kare Pan
Ma che succede quando sei goloso di curry e ti vien voglia di mangiarlo ogni istante, in ogni angolo di Tokyo, anche quando sei impegnato a visitare il maestoso Sensō-ji di Asakusa? Ecco spuntare dal nulla i Kare Pan, venduti al modicissimo prezzo di 300 Yen (poco più di due euro) da un chioschetto sito su una strada poco lontana dal tempio. Il Kare Pan si presenta, come il nome stesso potrebbe suggerire, come il classico paninozzo giapponese, una spessa e soffice pastella con all’interno il mio adorato curry. Buono e semplice da gustare camminando — anche se, in teoria, è maleducazione mangiare per strada in Giappone, ma nei pressi del tempio erano in molti a farlo e allora sticazzi. Inutile specificare quanto mi manchi affondare i denti in questi morbidi snack da passeggio, dato che in Italia è davvero impossibile trovarne in giro. Fortunatamente non è una ricetta troppo complessa, fatta eccezione per la preparazione del curry. Speriamo di ritrovare lo stesso chioschetto lì ad Asakusa.
Le gustose “banane” del Tiger Gyoza
Sempre nei pressi di Asakusa, ma decisamente più lontano dal tempio, ho avuto modo di mangiare più e più volte i famigerati Gyoza della catena Tiger, famosa per essere specializzata nei classici ravioli alla griglia ripieni di carne che troviamo facilmente in un qualsiasi ristorante cinese o giapponese all-you-can-eat in Italia. Ma vi assicuro che il sapore di quelli assaggiati in Giappone è del tutto diverso. Specie per quanto riguarda i Banana Gyoza, la cui caratteristica basilare viene tradita dal nome: dei ravioli giganti dalla forma curva in grado di saziare anche gli stomaci più esigenti e di lasciarvi appagati ma non appesantiti. Mi torna la fame al solo pensiero.
Nikuman, la tappa fissa del 7 Eleven
Gli snack caldi da mangiare appena acquistati sono parecchio diffusi nonostante il divieto implicito di gustarli camminando, e tra questi rientrano anche gli strepitosi Nikuman che ho ripetutamente ingurgitato all’uscita di ogni dannato 7 Eleven mi capitasse davanti. Per circa 200 Yen, se non vado errato (circa un euro e mezzo), il commesso del conbini ci riscaldava un gustosissimo panino al vapore ripieno di carne da mangiare al momento o da portare a casa. Il contrasto fra il gusto dolce dell’impasto e il ripieno di carne quasi salato rendeva questa semplice pietanza davvero appetitosa e in grado di creare dipendenza. Fortunatamente alcuni ristoranti all-you-can-eat dalle mie parti ne offrono la medesima versione al vapore o una variante fritta sul proprio listino di piatti. Anche se quello del 7 Eleven aveva un sapore speciale, probabilmente dettato dal luogo e dal momento in cui l’ho gustato più e più volte.
Una variante piacevole, soprattutto per gli occhi, l’ho provata al Luida’s Bar, il locale a tema DRAGON QUEST che si trova nella strada principale di Roppongi, quartiere in cui troneggia la celebre Tokyo Tower. Sebbene il locale in sé non sia nulla di eccezionale, al suo interno ho avuto il piacere di mangiare un Nikuman a forma di Slime; la variante dolce, quella viola, conteneva invece la consueta marmellata di fagioli azuki.
Taiyaki… o meglio, GUNPLA-YAKI 1/144. Ikimasu!
Sempre in tema di finger food, vi parlerò di uno dei dolci caratteristici e che avrete sicuramente visto in numerosi anime in occasione dei caratteristici “matsuri”: i Taiyaki, snack a forma di pesce (un’orata, per l’esattezza) con all’interno un ripieno che può spaziare dall’anko (marmellata dolce di fagioli azuki) alla crema pasticcera. Ma perché parlarvi semplicemente dei Taiyaki (assaggiati nei pressi del famoso ponte vicino alla stazione di Akihabara) quando posso raccontarvi di aver mangiato una, due, tre, quattro volte i Taiyaki a forma di RX-78-2 Gundam? Questa variante, che potrete trovare esclusivamente al GUNDAM Café (nei pressi dell’uscita della stazione di Akiba), è cucinata utilizzando degli stampi molto simili a quelli del primo model kit in scala 1/144 del Mobile Suit, uscito nel luglio del 1980. È uno dei pochi manicaretti economici del locale, che potrete gustare seduti al tavolo (e ascoltando una playlist delle più celebri sigle della saga sci-fi) oppure d’asporto, acquistandoli presso l’apposito sportello. Con i medesimi stampi del GUNPLA-YAKI vengono cucinate anche delle varianti salate (con wurstel grigliati) o con all’interno del gelato da gustare al piatto.
Gli Obento e la magia del KITCHEN ORIGIN
Durante i giorni passati a Tokyo, per assaggiare quante più prelibatezze possibili, ci capitava di fare due, o addirittura tre cene a sera, iniziando alle 21:00 e terminando circa alle due, tre di notte. Spesso e volentieri ci siamo recati al conbini a fare razzia di tutto ciò che ci capitava sotto tiro, spesso approfittando delle offerte di fine giornata poste sul cibo che il giorno dopo veniva inevitabilmente gettato via. Tuttavia, esiste un posto magico a Ikebukuro (vicino all’appartamento del mio primo e secondo anno a Tokyo) chiamato KITCHEN ORIGIN, una sorta di catena di take away dove è possibile scegliere uno degli Obento già pronti o farsi cucinare uno o più piatti fra quelli presenti sul listino, spendendo meno di dieci euro e portandosi a casa un pranzetto coi fiocchi. Il bento, per chi non lo sapesse, è il classico pasto in vaschetta che può contenere riso, carne, spaghetti, pesce, verdure, pollo, e sostanze non meglio identificate. Inutile dire che, spesso e volentieri, tornavamo a casa con molto più cibo di quello che saremmo riusciti a mangiare quella sera e finivamo per ingozzarci e passare le nottate in bianco. Quel cibo aveva il sapore dell’amicizia, di una giornata passata a spendere migliaia di Yen e camminare fra le strade che per noi sono le più belle del mondo. Non mi pento di nulla.
Il Sushi più buono del mondo
Giungiamo così alla tappa finale del nostro mistico viaggio fra sapori nipponici che spero vi abbia fatto venire l’acquolina in bocca. Ci tengo particolarmente a parlarvi di questo posto, di questa esperienza e del miglior sushi che abbia mai mangiato in vita mia. Nel 2014, la prima volta che io, Roberto e il nostro amico Daniel volammo in direzione del Sol Levante, non sapevamo che per entrare al Ghibli Museum di Mitaka era necessario pre-acquistare i biglietti mesi prima di partire dall’Italia, perché gli ingressi sono estremamente limitati e perché spesso e volentieri il museo chiude senza una ragione apparente. Arrivati alla stazione di Mitaka chiediamo informazioni su come arrivare a casa di Totoro e compagni e gli abitanti del quartiere (del quale ci siamo tutti, irrimediabilmente innamorati) ci hanno spiegato la situazione. Allora, stregati dalle strade e dagli scorci visibili dall’area antistante ai treni, decidemmo di lanciarci all’esplorazione di Mitaka, alla ricerca di qualche tempio antico o semplicemente di qualche negozio dove fare razzia di videogiochi e quant’altro. Di ritorno dalle nostre scorribande al tramonto eravamo lì lì per stramazzare al suolo dalla fame e ci si parò davanti un posto, un locale grosso quanto una stanza al quale non gli avresti dato un euro. Fuori, sulla vetrata, le foto del cuoco e proprietario, una in particolare dove inforcava fiero la sua motocicletta, molti anni prima.
Varcata la soglia addobbata con la tipica tendina, mi ritrovo davanti una scena che poteva benissimo provenire da uno dei film di Hayao Miyazaki: il “maestro” giaceva su una sedia sul retro e, poco distante da lui, all’ingresso, la vecchia moglie con in braccio un altrettanto vetusto gatto, tutti e tre praticamente addormentati. Avvertendo il rumore di gente entrare nel locale, la coppia si è rassettata in fretta e furia per darci il benvenuto: solo un paio d’anni dopo capimmo il loro stupore, eravamo i primi e forse unici clienti stranieri a varcare quella soglia da chissà quanti anni dall’apertura. Il locale era lì da tantissimi anni e a dimostrarlo l’arredamento, il vecchio televisore perennemente sintonizzato sul telegiornale e le fotografie pregne di placidi ricordi. Il vecchio, che pareva uscito dalla famosa scena di Kill Bill ambientata a Okinawa, parlava solo ed esclusivamente giapponese, ma preferiva tacere e farci capire a gesti o scrivendo su un foglio di carta come funzionasse la sua cucina: potevamo scegliere fra il menù da 1.000 o quello da 1.500 Yen, a seconda di quanta fame avevamo (indovinate?). I coperti potevano essere al massimo sei, tutti intorno al bancone dove lui preparava il sushi. Mentre i miei compagni di viaggio intonavano sottovoce Ai wo Torimodose (senza una ragione specifica, ma ormai ci sono abituato) la moglie del cuoco, dopo averci piazzato una grossa foglia davanti, provvedeva a portarci l’asciugamano bollente con il quale pulirci le mani, poi del tè verde e una zuppa di miso offerti dalla casa. Il sushi compreso nel menù non era di certo tanto, ma era decisamente grande e appagante: scordatevi il salmone o le stravaganti scelte disponibili nei ristoranti nostrani. Tonno, gambero, uova e molluschi non meglio identificati, rigorosamente conditi da del buon wasabi e da mangiare con le mani. Il sapore non è paragonabile davvero a nessun altro sushi mangiato nella nostra penisola e la situazione aveva un qualcosa di magico e indimenticabile. L’anno successivo ci siamo tornati, ma il proprietario (non ricoscendoci) ci ha chiuso la porta in faccia, perché eravamo piombati lì davanti in pieno pomeriggio. Più fortunati siamo stati la terza volta, accompagnati da Ilaria, che vive ormai a Tokyo da tempo e conosce la lingua come uno del posto, che ci ha consentito di comunicare nel migliore dei modi con la coppia, davvero molto entusiasta della nostra visita, tanto da offrirci ulteriore sushi e del costoso cioccolato da portarci a casa. Scattata una foto ricordo, siamo usciti di lì con l’agrodolce speranza di ritrovarli ancora una volta l’anno successivo. Da allora, sfortunatamente, non abbiamo più avuto occasione di andare a trovarli, ma ci auguriamo con tutto il cuore che stiano bene e che si ricordino dei chiassoso gruppo di gaijin che ogni volta che capita a Tokyo non vede l’ora di mangiare il sushi più buono del mondo.